Catone e le virtù politiche

Nicola Fosca - Independent Scholar (Torino, Italy)

Dante Notes / June 5, 2016

Da qualche tempo Romano Manescalchi va esponendo la propria idea, secondo cui Catone non è semplicemente in possesso della libertà politica, ma gode della “vera libertà”, che gli garantisce la salvezza; si tratta quindi della libertà morale, libertà dal peccato, che contraddistingue ogni persona giustificata. A ciò si riferisce Purg. 1.71-72:

     libertà va cercando, ch’è sì cara
     come sa chi per lei vita rifiuta.

Il sintagma per lei è cosi interpretato: Tu lo sai bene dal momento che, “per lei”, in grazia di essa, per il fatto che l’avevi raggiunta, poiché quella libertà da ogni terreno condizionamento la possedevi (con valore causale del “per”), non ti fu “amara” la morte in Utica, cioè, essendo già “morto” moralmente dentro di te, non provasti sofferenza alcuna nell’affrontare la morte fisica (in R. Manescalchi, Studi sulla Commedia, Napoli, Loffredo, 2011, p. 141). Catone, che era già in possesso della libertà, si tolse la vita.

Catone, scrive Peter Armour, visse nel periodo in cui l’imperium (il diritto di dominare il mondo concesso a Roma da Dio) stava passando al Principe: egli, paradossalmente difensore, per volontà divina, della libertà repubblicana contro la Monarchia, “is an affirmation of the indivisibility and essentially moral nature of the ideal of liberty, which not only survives within, but is actually guaranteed by the Empire” (Dante’s Griffin and the History of the World, Oxford, Clarendon, 1989, p. 135). La libertà ha sempre natura morale: il problema è considerare se resta nell’ambito delle virtù cardinali acquisite o se assume una veste sovrannaturale, essendo corredo delle virtù divinamente infuse. Nel caso di Catone, quindi, va compresa la modalità della effettiva conversione, che consente all’Uticense di brillare nel Purgatorio, di essere cioè destinato alla vita eterna. Dante ci informa, in due terzine parallele (trentacinquesime) di Par. 19 e 20, che solo chi ha creduto nella Passione può salire in Cielo. E così fece Rifeo, cui Dio concesse la grazia esplicita.

Sulle virtù cardinali acquisite faceva testo al tempo Macrobio, che nel Somnium Scipionis (1.8) scrive: “Plotino, primo con Platone tra i professori di filosofia, nel libro De virtutibus espone con divisione vera e naturale i loro gradi. Quattro sono i generi di tali quadruplici virtù: le prime sono chiamate politiche, le seconde si dicono purgatorie, le terze sono tipiche dell’animo già purgato, le quarte esemplari. Le politiche sono tali in quanto l’uomo è un animale politico. Grazie ad esse i buoni provvedono allo Stato, controllano le città, venerano i genitori, amano i figli e diligono il prossimo, proteggono con attenzione, con giusta liberalità, gli alleati”.[1] E san Tommaso commenta: “Secondo Plotino, come riporta Macrobio, una cosa sono le virtù dell’animo purificato, altra cosa le virtù politiche: le prime sono soprattutto le virtù che sono in patria; mentre le seconde si perdono” (De virtutibus, q. 5, a. 4). [2] Le virtù cardinali acquisite sono infatti generalmente chiamate “virtù politiche”. Scrive Bonaventura: “La virtù serve a rettificare le potenze dell’anima ed a rinvigorire contro le difficoltà. E come l’uomo è ordinato a Dio, così è ordinato a sé stesso ed al prossimo. Ha quindi bisogno da una parte degli abiti delle virtù teologiche, e dall’altra deglì abiti delle virtù cardinali” (In Sent. III, d. 33, a. un., q. 1).[3] Le virtù cardinali giungono a realizzazione grazie ad un libero atto di volontà, come è il caso dell’elemosina, in cui il gesto della mano che offre in dono è solo atto esteriore, il segno della volontà (In Sent. III, d. 33, a. un., q. 5).[4]

Per Dante l’Impero è strumento della grazia e, come la Chiesa, “remedium contra infirmitatem peccati” (Mon. III.iv.14). L’Impero, tenendo a freno con la legge la “voluntas corrupta” dei sudditi, fa sì che individui dotati soltanto di virtù acquisite portino a compimento le loro possibilità naturali: essi, malgrado i vulnera conseguenti al peccato originale e malgrado siano nella condizione peccaminosa di aversio a Deo (in quanto non dotati di virtù teologali), sono in grado di evitare la conversio ad bonum commutabile, non violando perciò la legge etica naturale. Il peccato consiste da una parte nell’aversio a Deo (superbia come initium), dall’altra in tale conversio (cupidigia come radix); tuttavia i cittadini dell’Impero possono evitare la seconda pur essendo in situazione di aversio a Deo. Questo status morale caratterizza eternamente, per Dante, gli abitatori del Limbo. In maniera decisamente eterodossa, l’Alighieri ritiene possibile che anche chi non è in stato di grazia possa evitare di peccare violando la misura della ragione: è la forza coercitiva della legge, che lo Stato giusto applica, a sorreggere la natura lapsa dell’uomo.

L’Impero Romano appare così come lo Stato perfetto, che favorì in maniera ottimale il primo Avvento; analogamente i capi di Stato, che per lui dovrebbero essere guidati dall’Imperatore, il “cavalcatore de l’umana volontade” (Conv. IV.ix.10), hanno il compito, facendo rispettare le leggi, di favorire l’Avvento quotidiano “nello spirito”. Tale contributo è effettivo se chi ne usufruisce, rendendosi conto che il potere temporale è sempre provvidenzialmente istituito, opera della Grazia, subordina la sottomissione al Padre-re alla sottomissione al vero Padre, quello celeste, la quale implica carità e timore casto o filiale. Catone, perciò, per essere salvato, dové compiere qualche gesto, qualche atto di volontà, che gli consentì di ottenere l’infusione delle virtù teologali. Alla grazia gratis data, tipica dei Limbicoli, dovette sostituirsi, in virtù di un atto di conversione, la grazia santificante.

Secondo Manescalchi, il suicidio è in questo senso insignificante: quanti individui si tolsero la vita! Non è il suicidio, quindi, a contrassegnare la sorte di Catone. Eppure, c’è suicidio e suicidio, come spiega sant’Agostino, il quale pure condanna il suicidio di Lucrezia (“troppo desiderosa di lodi”: De Civ. Dei I.19) e di Catone (privo di fortezza di fronte alle avversità e invidioso della fama che Cesare avrebbe guadagnato nel perdonarlo: De Civ. Dei I.23), ma afferma che l’uccidere sé stesso od altri non costituisce un delitto quando “l’ordine di uccidere viene da una legge giusta in senso generale o da Dio stesso, fonte di giustizia” (De Civ. Dei I.21). Anche Catone, come Cristo, sacrificò sé stesso per consentire la realizzazione di un bene superiore (cfr. Mon. II.v.15: “sacrificio indicibile”). L’Aquinate rinvia ad Aristotele, che afferma che “l’uomo virtuoso, pur amando la propria vita, la abbandona per il bene della virtù; e così fece Cristo a causa del bene della carità” (Summa Theol. III, q. 46, a. 6).[5] L’episodio di Marzia (al quale Manescalchi si richiama) non è cogente, da siffatta prospettiva sacrificale.

Da Phars. II (vv. 326-349) Dante sa della devozione coniugale di Marzia, sposa di Catone, poi passata a Q. Ortensio e poi, morto questi, di nuovo a Catone. Nel Convivio (IV.xxviii.13-19) si dà un’interpretazione puramente allegorica della vicenda, simboleggiando il ritorno della donna al primo marito il ritorno dell’anima a Dio nella vecchiaia (“E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo”); ma nella Commedia il sovrasenso allegorico (quando c’è) è convogliato da un evento storico espresso dal senso letterale. Marzia è nel Limbo “because Dante has abandoned the allegory of poets, which took her to heaven, for the allegory of theologians, with its insistence on the priority of history over philology” (R. Hollander, Studies in Dante, Ravenna, Longo, 1980, p. 81). L’appello di Virgilio a permettere il passaggio presuppone che Catone tenga conto di motivazioni terrene, ma non è così. La prospettiva di Catone, al contrario di quella di Virgilio, è celeste: quindi per amore di una donna del ciel (Beatrice), non terrena (Marzia), egli, che interpreta le parole di Virgilio come lusinghe (1.92), darà il consenso. La lettura che Catone dà delle parole di Virgilio approfondisce il solco fra i due grandi spiriti. Il Purgatorio, precisa G. Mazzotta, è “il mondo della reciprocità”. “But no reciprocity is possible between the lost and the elect: Cato, who now lives under the new law, refuses Vergil’s flattery, the captatio benevolentiae formulated in the language of earthly love. It is the Lady of Heaven who is the intermediary for the pilgrim’s ascent. The rhetoric of the eyes, so central in secular love lyrics, is recalled only to be quickly dismissed. Marcia is mentioned to Cato, metonymically, through her chaste eyes, and Cato remembers how delightful she was to his eyes; but there is no yielding in Cato to nostalgia and the insidious temptation of the past. The palinode of earthly love marks his spiritual regeneration” (Dante, Poet of the Desert, Princeton Univ. Press, 1979, p. 52).

La tesi di Manescalchi è comunque incompatibile con Mon. II.v.16, ove si dice che l’Uticense, “per accendere nel mondo l’amore della libertà, ne ha mostrato il valore preferendo morire libero piuttosto che vivere senza di essa”. Essendo perfettamente dotato delle virtù cardinali o politiche, Catone preferì la morte al fatto di vivere senza poterle esercitare. La sua eccellenza etica “naturale” ha consentìto di interpretare il suicidio come un sacrificio, secondo le norme della somma giustizia, donde l’infusione delle virtù e in conseguenza la salvezza.


[1] [Plotinus, inter philosophiae professores cum Platone princeps, libro De virtutibus gradus earum vera et naturali divisionis ratione compositos per ordinem digerit. Quattuor sunt, inquit, quaternarum genera virtutum. Ex his primae politicae vocantur, secundae purgatoriae, tertiae animi iam purgati, quartae exemplares. Et sunt politicae hominis, qua sociale animal est. His boni viri rei publicae consulunt, urbes tuentur; his parentes venerantur, liberos amant, proximos diligunt; his civium salutem gubernant; his socios circumspecta providentia protegunt, iusta liberalitate devinciunt.]

[2][Praeterea, secundum Plotinum, ut Macrobius refert, aliae sunt virtutes purgati animi, et aliae virtutes politicae. Sed virtutes purgati animi maxime videntur esse virtutes quae sunt in patria; virtutes autem quae sunt hic, sunt virtutes politicae. Ergo virtutes quae sunt hic, non manent, sed evacuantur.]

[3] [Dicendum, quod generalis necessitas virtutis est ad rectificandum potentias animae contra obliquitatem et ad vigorandum contra difficultatem. Virtus enim facit potentiam rectam et vigorosam. Et quoniam contingit, hominem ordinari ad Deum, contingit nihilominus, hominem ordinari ad proximum et se ipsum; et in his eisdem potest obliquari et impediri sive retardari: hinc est, quod non solum indiget habitibus ipsum vigorantibus et rectificantibus, prout directe tendit in Deum, cuiusmodi sunt habitus virtutum theologicarum, sed etiam indiget habitibus ipsum regulantibus et rectificantibus, prout ordinatur ad se ipsum et ad proximum. Et tales sunt habitus virtutum cardinalium.]

[4] [Virtus politica non perducitur ad complementum per actum exteriorem, sed per actum voluntatis interiorem; sicut patet, cum aliquis largitur eleemosynam, est ibi operatio manus exterius exsequentis, et ista non est principium virtutis, sed signum; et est operatio voluntatis interioris moventis et dirigentis, qua vult largiri alii.]

[5] [Virtuosus plus diligit vitam suam quanto scit eam esse meliorem: et tamen eam exponit propter bonum virtutis. Similiter Christus vitam suam maxime dilectam exposuit propter bonum caritatis, secundum illud Jer. XII 7: Dedi dilectam animam meam in manibus inimicorum eius.]