Postilla a Inferno 18.100. Sul lemma calle.

Daniele Santoro (I.C. San Benedetto, Roma)

Dante Notes / December 16, 2019

Non è peregrina la presenza del vocabolo «calle» a ingresso della bolgia degli adulatori in Inf. 18.100 (anche qui, come a Inf. 10.1, in clausola e dunque in posizione esposta); esso infatti, non meno di altri lemmi presenti a quest’altezza del canto, si ascrive al lessico dimesso che connota sia i dannati adulatori del cerchio dei fraudolenti che il loro ambiente. La presente nota intende, pertanto, dimostrare la rilevanza che tale voce assume di là dell’ovvio significato per ‘passaggio stretto’, nella fattispecie, quello del ponticello roccioso che si incrocia («s’incrocicchia», v. 101) con l’argine della seconda bolgia presso il quale giungono i due viatores dell’Inferno.

Inteso, infatti, nel senso di ‘via’, ‘cammino’ (Inf. 1.18, Inf. 15.54), ‘direzione’ (Purg. 8.40), finanche ‘apertura’, ‘corso’ (di fiume, come a Purg. 14.45), il termine deriva dal lat. callis che – non escludendo il significato di ‘passaggio angusto’ né peraltro l’idea di una impervietà nell’attraversarlo (Purg. 14.45 e, in senso figurato, soprattutto Par. 17.59-60 laddove «lo scendere e ’l salir per l’altrui scale», nella profezia cacciaguidiana, «è duro calle [= faticoso sentiero]») – vale più propriamente, in base all’etimologia, ‘sentiero campestre attraversato da animali’.

 Così nota infatti Boccaccio, chiosando pertinentemente il sintagma «per un secreto calle» di Inf. 10.1:

«segreto, a dimostrare che pochi per quello andassero, avendo per avventura altra via coloro li quali, dannati, là giù ruvinavano; e, per dimostrare quella via non essere usitata da gente, la chiama ‘calle’, il quale è propriamente sentieri li quali sono per le selve e per li boschi, triti dalle pedate delle bestie, cioè delle greggi e degli armenti, e per ciò son chiamati ‘calle’, perché dal callo de’ piedi degli animali son premute e fatte».[1]

Una conferma si ritrova anche nel Corpus glossariorum latinorum per il quale il lemma in questione sta per «via in silvis vel semita trita. Semita, strata pecorum. Calles: viae tritae pecorum vestigiis».[2]

Né diversa è la spiegazione offerta, secoli prima, dall’etimologista Isidoro di Siviglia, scrittore ben noto alla cultura medioevale e allo stesso Dante:

«Semita itineris dimidium est, a semiitu dicta. Semita autem hominum est, calles ferarum et pecudum. Callis est iter pecudum inter montes angustum et tritum, a callo pedum vocatum, sive a callo pecudum praeduratum».[3]

Altrettanto puntuale è Uguccione da Pisa:

«[…] callis, scilicet semita callo pecudum predurata, stricta et angusta inter montes, et est callis iter pecudum proprie, semita hominum».[4]

Tale specifica valenza è riscontrabile, oltre che nel luogo in questione, soprattutto in Inf. 10.1, dove il termine, congiunto significativamente con l’aggettivo «secreto» per ‘deserto’, ‘appartato’ – aprendosi il calle tra la cinta muraria della città di Dite e gli avelli infuocati – in stretta osservanza alla legge del contrappasso per analogia e al celebre precetto epicureo del lathe biosas [= ‘vivi nascosto’], rimanda al sentiero percorso dalle bestie, nella fattispecie, dai porci a cui erano generalmente accomunati gli epicurei per la loro dedizione ai piaceri carnali; cfr., la spiegazione, tra le altre, del già citato Isidoro:

«Epicurei dicti ab Epicuro quodam philosopho amatore uanitatis, non sapientiae, quem etiam ipsi philosophi porcum nominauerunt, quasi uolutans in caeno carnali, uoluptatem corporis summum bonum adserens».[5]

La medesima connotazione animale ispira il passo di Purg. 8.40, laddove il termine, a significare ancora una volta il sentiero percorso da esseri non umani, è impiegato da Dante-auctor nell’informazione al lettore in merito al proprio non sapere da quale parte sarebbe sopraggiunta l’insidia demoniaca, ovvero il serpente, contro il quale, a difesa della valle – spiega Sordello – gli angeli guardiani sono venuti dall’Empireo, sede di Maria. Si noti la vicinanza, appena un verso prima, sia al lemma «serpente» sia al sinonimico «via».

Idem in Purg. 14.45, a proposito della corruzione degli abitanti di Valdarno, segnatamente i casentinesi apostrofati a vv. 43-44 «brutti porci, più degni di galle [= ghiande] / che d’altro cibo fatto in uman uso»; ma cfr. anche gli aretini, definiti «botoli [= ‘cagnacci’] […] / ringhiosi» (vv. 46-47), i fiorentini colti nel loro «di can farsi lupi» (v. 50) e i pisani «volpi sì piene di froda» (v. 53).[6]

Ritengo, pertanto, che al nostro luogo l’impiego di tale termine da parte del poeta, non sia affatto causale, ma risponda – ad apertura, come si diceva, della seconda parte del canto – a una precisa anticipazione del luogo grottescamente abietto e degradante che sta per descriversi, protagonisti del quale sono i bestiali adulatori; anticipazione, per giunta, non meno funzionale al sarcasmo che investe i suoi protagonisti e i dannati, più innanzi, delle bolge degli indovini, dei ladri e dei falsari, le cui precipue caratteristiche fisiche rinviano giustappunto al mondo animale, cui non è esente, nella bolgia dei barattieri, anche la figurazione selvaggiamente ferina dei diavoli guardiani.[7] Cfr. infatti e rispettivamente i luoghi di: Inf. 20.39 dove la voce, anche qui in posizione di rilievo trovandosi in chiusa di verso, sigilla l’intervento di Virgilio riferito al mostruoso e ‘bestiale’ indovino greco Anfiarao stravolto nel corpo («c’ha fatto petto de le spalle», v. 37) e perciò costretto a «fare retroso calle»; Inf. 25.141 «com’ho fatt’io, carpon per questo calle», dove il vocabolo, ascritto agli spregevoli ladroni, trasformati in serpi, e rivolto a Buoso Donati da Francesco de’ Cavalcanti, rimanda significativamente – giusta la loro mutazione in rettili – al mondo degli animali più infimo; Inf. 29.69 «si trasmutava per lo tristo calle», che ha per protagonisti i falsari incapaci di reggersi in piedi e pertanto condannati a procedere – non diversamente dai ladroni di cui sopra – carponi, cioè ‘nella posizione di chi striscia a terra’, «idest cum manibus et pedibus per terram, sicut pergunt bestiae» (Bambaglioli) [8]ovvero, dato che «come bestie sono vivuti amando pur li beni terreni; così come bestie vanno co’ piedi e con le mani, volto il volto in verso la terra» (Buti).

Tutt’altro che dissimile è l’umiliante degradazione dell’umana natura, che caratterizza «la gente attuffata» (v. 113) nello «sterco»[9] della seconda bolgia, di cui è appunto spia il vocabolo quivi indagato. Nell’ottica di tale degradazione, non sorprenderà la presenza del termine, ugualmente afferente al lessico zoologico, «muso» di v. 104, «sicut facit porcus in coeno, et bene dicit, quia vitium adulationis stat in labiis» (Benvenuto da Imola); termine, quest’ultimo, in combinazione con l’icastica voce verbale ‘scuffare’ per ‘mangiare ingordamente’ «como cani» (Maramauro) o traendo «il muso di fuori, a guisa che fa il porco del fango» (Anonimo fiorentino). Meno esplicito è invece il sintagma allitterante (e pertanto percussivo) «palme picchia» di v. 105 che accomuna alla sola altra espressione, a Inf. 9.50, di «battiensi a palme» delle feroci Furie infernali dalle membra femminine, ma dai capelli – giustappunto – serpentini, nonché cinte «con idre verdissime» (v. 40).

In conclusione, ritengo si possa candidamente asserire che il poeta utilizzi il termine con assoluta cognizione di causa, ovvero riferendolo, ogni volta, allo stato bestiale. Ne è conferma la sua preminenza nella cantica infernale (7 occorrenze su 10), ma si aggiunga anche l’hapax ‘callo’ in Inf. 33.100 dal cui tema pure dipende il nostro vocabolo (di cui alla spiegazione offerta da Boccaccio);[10] né tuttavia differisce il senso, come si è dimostrato, nei restanti loci purgatoriali.

Uniche eccezioni i luoghi di: Inf. 1.18 «che mena dritto altrui per ogni calle» il cui termine – non inficiante in ogni modo il senso di impervietà – non escludo possa esser stato impiegato per ovviare alle iterazioni dei ravvicinati lemmi «cammin» (vv. 1 e 35 «cammino») e «via» (vv. 3, 12);[11] Inf. 15.54 «e reducemi a ca per questo calle», pronunciato dal poeta, in risposta a Brunetto, con esplicito rimando all’episodio proemiale dello smarrimento «in una valle» (v. 50) appena richiamato.

Diversamente avviene invece per le voci ‘calla’ di Purg. 4.22 e Purg. 9.123, stante propriamente per ‘apertura’, ‘passaggio’, e ‘callaia’ di Purg. 25.7, da intendersi ‘sentiero strettissimo’ e simili. Pur derivanti da ‘calle’, infatti, esse sono ben differenziate semanticamente, in quanto esente alcuna relazione col mondo animale.

 


[1] G. Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a c. di G. Padoan, in G. Boccaccio, Tutte le Opere, a c. di V. Branca, VI, Milano, Mondadori, 1965, p. 513. Sul senso del «secreto calle» e, in genere, sulla questione relativa al calco virgiliano da Aen. 6.443, si rimanda a D. Santoro, Sul “secreto calle” di Inf. X 1, in «L’Alighieri. Rassegna dantesca», n. 46, 2015, pp. 103-115.

[2] Cfr. s.v. callis, in Corpus glossariorum latinorum, a c. di G. Goetz, VI, Lipsia, Teubner, 1899, p. 169.

[3] Isidoro di Siviglia, Etym. 25.17 9-10; cfr. anche Id. Diff. 1.539 «callis […] dicitur via stricta, a calcando ita dicta». 

[4] Uguccione da Pisa, s.v. calco, in Derivationes, Edizione critica princeps a c. di E. Cecchini, G. Arbizzoni, S. Lanciotti, G. Nonni, M.G. Sassi, A. Tontini, 2 voll., Tavarnuzze, SISMEL Edizioni del Galluzzo, 2004, II, C 8.2, p. 563; ma cfr. anche s.v. hemis, in Deriv. H 13.10, ivi, p. 1386: «dimidium iter […]; et est proprie semita hominum, callis ferarum et pecudum, a calcando vel a callo est enim callis proprie semita stricta et tenuis, callo pecorum perdurata».

[5] Isidoro di Siviglia, Etym. 8.6 15.

[6] Cfr. ancora, all’interno dello stesso canto, i termini: «biscia» (v. 38), «lupi» (v. 59), «carne» (v. 61), «belva» (v. 62), «assanni» (v. 69).

[7] Cfr., in Inf. 21, i seguenti lemmi ed espressioni afferenti al mondo animale: v. 30 «aspetto fero», v. 33 «con l’ali aperte», v. 44 «mastino sciolto», v. 68 «cani», v. 131 «digrignano i denti» e il poliptoto a v. 134 «digrignar», che è atto esclusivamente bestiale e demoniaco (cfr. la sola altra occorrenza in Inf. 22.91). Ad essi si aggiungano anche i nomi dei diavoli: v. 37 «Malebranche [etimologicamente, ‘cattivi artigli’, essendo le ‘branche’ gli artigli leonini]», v. 76 «Malacoda», v. 119 «Cagnazzo», 121 «Draghignazzo», v. 122 «Ciriatto sannuto [ovvero ‘con le zanne]» e «Graffiacane».

[8] Graziolo de’ Bambagliuoli, Commento all’“Inferno” di Dante, a c. di L.C. Rossi, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1998, p. 166.

[9] Da notare le varianti espressionistiche e triviali «merda» di v. 116, «merdose» di v. 131 (in rima ossimorica con «maravigliose» di v. 135, in funzione parodistica) e, a stretta vicinanza, «uman privadi [= ‘latrine’]».

[10] Vedi supra.

[11] Altra occorrenza a Inf. 1.95.