Sull’origine dei fiumi infernali: Dante, Inf. XIV e il Fedone platonico

 

Rosa Ronzitti (Università di Genova)

Dante Notes / February 9, 2021

1. Nel XIV dell’Inferno, la cui seconda parte è occupata dalla possente figura del Veglio di Creta, si affronta l’origine dei fiumi infernali.[1]

Costeggiando la selva dei suicidi, Dante e Virgilio giungono a un fiumicello rosso, il Flegetonte. Virgilio si sofferma a spiegare: tutte le correnti infernali sgorgano da una statua nascosta nel monte Ida, il Veglio, che tiene le spalle rivolte a Dammiata (Damietta) e il volto a Roma. La statua si compone di materiali via via meno preziosi: la testa è d’oro, d’argento braccia e petto, di rame il torso, di ferro le gambe. Solo il piede destro è di terracotta e su quello poggia tutto il peso. Quale che sia il significato di questa affascinante allegoria, usualmente ricondotta al brano biblico Daniele II, 2, 31-45, a noi preme maggiormente soffermarci sul fatto che dalla statua, fessurata in più punti, sgorgano lagrime …, / le quali, accolte, fóran quella grotta (XIV 113-114). Dalle lacrime nascono quattro fiumi (115-120):

Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,
infin, là dove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta.

Gli idronimi sono di origine classica. Tuttavia, nel sesto dell’Eneide, primaria fonte dantesca[2] che pure li menziona (in ordine sparso), non troviamo alcun riferimento alla loro scaturigine e al loro percorso e si suole perciò attribuire a Dante l’organizzazione “idrogeologica” esposta in questo punto del poema.[3]

2. A nostro avviso, invece, il passo dell’Inferno potrebbe piuttosto presupporre una qualche conoscenza del Fedone platonico.

Nella parte finale di tale dialogo Socrate, appena prima dell’assunzione della cicuta, narra il mito della vera terra (109a ss.), che offre una visione del nostro pianeta alquanto peculiare[4] L’uomo crede di abitare sulla superficie della terra, mentre in realtà la “vera terra” ha sede nell’etere, dove altri uomini vivono in un luogo meraviglioso dalle caratteristiche paradisiache. In questa sorta di mondo “allargato”, il nostro pianeta –sedimento e corrosione di quello lassù– è una sfera bucata all’interno e posta in equilibrio al centro dell’universo. Nel suo sottosuolo fiumi perenni di acque calde e fredde, di fuoco e di fango scorrono senza sosta attraverso innumerevoli canali collegati fra loro (111d) e oscillano in un moto circolatorio perpetuo (αἰώρα, 111e). Ne è causa il precipitarsi delle masse liquide nell’enorme voragine del Tartaro, da cui esse tornano a rifluire in superficie dopo giri tortuosi e spiraliformi formando mari, laghi, fiumi, fonti (112c). Tra le correnti tartaree, spiega Socrate, se ne distinguono quattro: Oceano, Acheronte, Piriflegetonte e Stige/Cocito (112e-113c),[5] le quali scorrono parzialmente in superficie prima di inabissarsi nelle profondità della voragine. Le anime dei trapassati, ciascuna sotto la guida del suo daimon, si dirigono verso tali plaghe per essere sottoposte a giudizio divino.[6] Platone unisce perciò, indissolubilmente, la dimensione geografica a quella escatologica, secondo il paradigma, inaugurato dalla nekyia omerica (Odissea XI), che colloca il mondo dei morti in luoghi lontani e inaccessibili o ai limiti del mondo conosciuto o nelle sue profondità.

3.    Una traduzione del dialogo platonico circolava nel Medioevo. Si tratta del Phaedo che l’arcidiacono di Catania Enrico Aristippo volse dal greco in latino tra il 1156 (anno indicato dall’autore stesso nell’epistola prefatoria all’amico Roboratus) e il 1162 (anno della sua morte).[7] Tale versione trasla fedelmente l’originale, se pur con qualche errore.[8] Vi si legge dunque di come, opposto all’Oceano, che Platone (a differenza di Dante) considera la prima corrente, ‘l’Acheronte, scorrendo in senso contrario, … giunge alla palude Acherusiade’ (contrarius fluens Acheron… in paludem venit Acherusiada). Una seconda coppia di fiumi è costituita da Piriflegetonte e Stige/Cocito: ‘Vi è [un fiume] che chiamano Piriflegetonte … e, dal lato opposto a questo, [un quarto fiume sbocca dapprima in un luogo] che particolarmente chiamano Stigio e il fiume, immettendosi, forma il lago Stige’ (est quod agnominant Piriflegetontahuic autem ex adverso … quem utique agnominant Stigium, et lacum facit flumen ingrediens Stiga)[9] … ‘e a questo è nome Cocito, come dicono i poeti’ (nomenque huic est, ceu poete dicunt, Cocitos).[10] La sequenza dei fiumi è dunque “Acheronte, Piriflegetonte, Stige/Cocito”. Ma poiché Piriflegetonte viene ripetuto ancora una volta prima del Cocitos finale, si ha in realtà la serie “Acheronte, Piriflegetonte, Stige, Piriflegetonte, Cocito”, molto simile a quella dantesca (Acheronte, Stige e Flegetonta … fanno Cocito).

Platone riecheggia a sua volta Omero, che per primo menziona i fiumi nelle letterature classiche e li elenca tutti insieme quando Odisseo si appresta alla nekyia, cfr. Od. X 513-514: ἔνθα μὲν εἰς Ἀχέροντα Πυριφλεγέθων τε ῥέουσιν/ Κώκυτός θ᾽, ὃς δὴ Στυγὸς ὕδατός ἐστιν ἀπορρώξ ‘Qui nell’Acheronte si gettano e il Piriflegetonte e il Cocito, che è un braccio dell’acqua di Stige’.[11] Nell’Eneide virgiliana, invece, il Cocito riceve fango dall’Acheronte (Aen. VI 295-297)[12] e pare possedere anche una natura lacustre (Cocyti stagna alta vides Stygiamque paludem ‘Vedi i profondi stagni del Cocito e la palude stigia’, VI 323).[13] Tale duplice natura è assunta, come abbiamo visto, nel paesaggio dell’Inferno: il Cocito vi indica sia un corso d’acqua sia il lago ghiacciato che si forma da tutti i fiumi in fondo al baratro infernale.[14]

Tra le conoscenze dantesche va assunto il commento serviano all’Eneide[15]: Servio, ad Aen. VI 295-297 (vd. alla nota 12), nomina in sequenza Acheronte, Stige e Cocito dandone un’interpretazione allegorica (la selva è lo smarrimento, i fiumi corrispondono a tristezza/lutto/morte) e immaginando che ognuno scaturisca dall’altro:

TARTAREI QUAE FERT ACHERONTIS AD UNDAS sequitur illud Pythagoricum, dicens tenuisse eos viam post errorem silvarum, quae vel ad vitia vel ad virtutes, ut diximus, ducit. TARTAREI ACHERONTIS Acheronta vult quasi de imo nasci Tartaro, huius aestuaria Stygem creare, de Styge autem nasci Cocyton. et haec est mythologia: nam physiologia hoc habet, quia qui caret gaudio sine dubio tristis est. tristitia autem vicina luctui est, qui procreatur ex morte: unde haec esse apud inferos dicit.

TARTAREI QUAE FERT etc. [Virgilio] segue l’insegnamento pitagorico, dicendo che quelli (Enea e la Sibilla), dopo aver errato per le selve, hanno seguito la strada che conduce o ai vizi o alle virtù, come dicemmo. TARTAREI ACHERONTIS [Virgilio] vuol dire che l’Acheronte nasce quasi dal fondo del Tartaro e che le foci di questo creano Stige e che da Stige nasce poi Cocito. Fin qui la mitologia; in effetti la fisiologia mostra ciò, poiché chi è privo di gioia è indubbiamente triste; la tristezza poi è vicina al lutto che si genera per la morte: perciò [Virgilio] dice che tali cose sono presso agli inferi’.[16]

Il Rand, nel rintracciare giustamente un legame fra le righe di Servio e Inf. XIV, aggiunge però in nota: «Possibly some form of Plato’s account of Tartarus and its rivers had also reached Dante. See Phaedo 112 A».[17]

4. Il mito finale del Fedone va preso in considerazione quale plausibile fonte dantesca: poteva essere letto dal poeta in latino, espone (unico fra i testi classici) un’idrografia ipogea realistica,[18] implica la confluenza di tutte le acque sotterranee ed elenca quattro fiumi infernali in sequenza serrata, simile a quella della Commedia. Collega inoltre l’escatologia alla struttura del cosmo, il quale comprende sia gli inferi, meta delle anime defunte, sia l’etere, una sorta di “paradiso” splendente e prezioso. Come il monte Ida è l’anti-Eden e il XIV dell’Inferno si rispecchia e rovescia nel XXVIII del Purgatorio, canto che celebra l’età dell’oro e suo stato felice,[19] così nel Fedone la terra eterea rimanda esplicitamente alle Isole dei beati (111a), Eden pagano e perenne età dell’oro destinata solo ai virtuosi.

Nel concludere questa breve nota ritengo importante sottolineare l’acquisizione che Dante potesse accedere a un testo filosofico greco per via di una traduzione latina condotta nell’Italia meridionale –fucina ininterrotta di studi ellenici anche dopo la disgregazione dell’Impero Romano. Gli studi sulla cultura dell’Alighieri[20] riceverebbero a nostro avviso ulteriore impulso da una visione allargata delle fonti a sua disposizione, posto che l’enorme e prodigiosa creatività dantesca non si esaurisce certo nell’orizzonte di una ricerca crenologica.




[1] Per una decifrazione complessiva del canto si vedano Giovanni Andrea Scartazzini, La Divina Commedia, Volume I: L’Inferno, Bologna: Arnaldo Forni Editore 1965 (rist.), pp. 215-231; la voce Fiume (Fiumi dell’Inferno e del Purgatorio) a cura di Pietro Mazzamuto in Enciclopedia Dantesca, 2. ed. riveduta, Roma: Treccani 1984, Vol. II, pp. 939-943 e il recente e molto ben documentato Ambrogio Camozzi, “Il Veglio di Creta alla luce di Matelda: una lettura comparativa di Inferno XIV e Purgatorio XXVIII”, in The Italianist 29 (2009), pp. 3-49. A questo studio rimando per la bibliografia e le interpretazioni del Veglio, su cui non mi soffermo; ne ringrazio l’Autore per i preziosi consigli.

[2] Anche la Tebaide di Stazio è ricca di pertinenze infere, ma più attenta ad aspetti scenografici e di pathos. Cfr. in part. IV 520-524, grande squarcio sulle acque tenebrose dell’Erebo e VIII 30, con la personificazione di Cocito, Flegetonte e Stige. Un accenno interessante nel primo libro delle Georgiche virgiliane (IV 479-480) mette insieme Cocito e Stige.

[3] Così il recentissimo Donato Pirovano, “Fiumi danteschi”, in Studium 5 (2020), pp. 655-671 scrive: «Dante ricava questi nomi [scil. dei fiumi] dai suoi autori prediletti – non solo dal suo maestro e dal suo autore, ma anche da Stazio, da Ovidio ecc., tuttavia nei loro libri vi trovava accenni, schizzi, abbozzi, a volte confusi e persino contraddittori. Fu, dunque, lui a disciplinare quella materia fluida e caotica, incanalando le acque tartaree in un preciso sistema idrografico che è al contempo elemento geografico e strumento di pena» (pp. 660-661). Per il valore allegorico di tale sistema, con particolare attenzione al suo simbolismo morale, cfr. anche Daniel J. Donno, “Moral Hydrography: Dante’s Rivers”, in Modern Language Notes 92 (1977), pp. 130-139. Per una prosecuzione del tema anche nel Paradiso cfr. ancora Donato Pirovano, “Idrografia dantesca. Dalla livida palude al fiume di luce”, in Rivista di Letteratura Italiana XXXVIII/2 (2020), pp. 9-25.

[4] Ne tentano un’interpretazione astronomica (la terra “estesa” rappresenterebbe l’eclittica con le dodici costellazioni zodiacali) Giorgio de Santillana – Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Milano: Adelphi 2003, pp. 233-242.

[5] Il testo greco originale non è chiarissimo: all’inizio del paragrafo 113c Socrate parla propriamente di ‘luogo stigio’ e ‘palude Stige’ formati da un fiume e, poco oltre, di un fiume ‘che i poeti chiamano Cocito’. Gli interpreti intendono generalmente che il quarto fiume abbia un doppio nome: Stige e Cocito. Si veda anche nel paragrafo successivo e alla nota 10. Per il Tartaro platonico cfr. Otto Baensch, “Die Schilderung der Unterwelt in Platons Phaidon”, in Archiv für Geschichte der Philosophie XVI/2 (1903), pp. 189-203 e il più recente Filip Konfík, “Pumpe und Schaukel im Tartaros: zum Phaidon 111C4-112E3”, in Acta Universitatis Carolinae. Philologica 2. Graecolatina Pragensia 20 (2004), pp. 73-86.

[6] In particolare: quelli che hanno tenuto una via di mezzo tra vizio e virtù attraversano in barca l’Acheronte, arrivano alla palude Acherusiade e quivi si purificano; i colpevoli incurabili finiscono per sempre nel Tartaro; i colpevoli curabili entrano nel Tartaro ma potranno uscirne dopo essersi purificati; i virtuosi abiteranno invece nella vera terra.

[7] Il testo da cui citiamo fu edito da Lorenzo Minio-Paluello, dopo un’attenta collazione dei manoscritti rimasti, in Corpus Platonicum Medi Aevii, Vol. II: Phaedo. Interprete Henrico Aristippo, Londinii: In Aedibus Instituti Warburgiani MCML, pp. 80-81. Le redazioni del testo sono due, entrambe dello stesso Aristippo (che tradusse anche il Menone). Uno dei manoscritti rimastici, il Parisinus 5657A, fu posseduto da Francesco Petrarca, che lo annotò di suo pugno. Per inquadrare la figura del traduttore siciliano e il suo metodo cfr. Antonio Carlini, Vigilia greca normanna: il ‘Platone’ di Enrico Aristippo, in Michele Feo et alii, Petrarca e il mondo greco, Firenze: Le Lettere 2007, pp. 47-69.

Le voci Platone e Timeo a cura di Marta Cristiani della Enciclopedia Dantesca (2. ed. riveduta, Roma: Treccani 1984, Vol. IV, pp. 546-550 e Vol. V pp. 604-605) sottolineano la presenze platoniche nella Commedia. Il Timeo poteva essere noto a Dante, che lo nomina esplicitamente in Pd. IV 40 (e in Conv. III v 6), grazie alla versione di latina di Calcidio.

[8] Enrico Aristippo è un fidus interpres che predilige la lettera del testo, come tutti i traduttori medioevali dal greco (cfr. Carlini, art. cit., p. 55).

[9] Il pronome relativo quem, maschile, è concordato con l’antecedente Occeanus, che nasce però da un fraintendimento del testo originale, il quale invece ha ὁ κυανός ‘il (colore) bluastro’ delle acque stigie.

[10] Il passo tradotto da Enrico Aristippo contiene le stesse ambiguità dell’originale greco (vd. alla nota 5): Stigium è riferito a locum (τόπον) e Stiga a lacum (λίμνην); entrambi sono formati da un flumen contrapposto al Piriflegetonte, che quindi dovrebbe chiamarsi Stige e, nella lingua dei poeti, Cocito. Altrimenti, con diversa interpretazione, è riservato al fiume il solo nome Cocito e alla palude quello di Stige (che in greco è femminile). In Esiodo Stige, figlia maggiore d’Oceano, scorre e non stagna (Theog. 775-776).

[11] La forma Πυριφλεγέθων ‘Fiammeggiante di fuoco’ è più antica del semplice Φλεγέθων ‘Fiammeggiante’. Dante usa l’accusativo greco Flegetonta come nominativo e si noti che nella traduzione dell’Aristippo compare proprio la forma Piriflegetonta.

[12] Hinc via Tartarei quae fert Acherontis ad undas;/ turbidus hic caeno vastaque voragine gurges/ aestuat, atque omnem Cocyto eructat arenam. ‘Da qui la via che porta alle onde del tartareo Acheronte; / qui un gorgo, torbido di fango e di vasta voragine, ribolle ed erutta nel Cocito tutta la sabbia’.

[13] Cfr. Eduard Norden, P. Vergilius Maro. Aeneis Buch VI, Vierte Auflage, Darmstadt: Wissenschaftliche Gesellschaft 1957, p. 220.

[14] Si veda la voce Cocito a cura di Emilio Bigi in Enciclopedia Dantesca, 2. ed. riveduta, Roma: Treccani 1984, Vol. II, p. 46.

[15] Cfr. Edward Kennard Rand, “Dante and Servius”, in Annual Reports of the Dante Society 33 (1914), pp. 1-11 e Giuseppe Ramirez, “Commento di Servio al libro VI dell’Eneide: citazioni filosofiche e memoria di Dante”, in Bollettino di italianistica. Rivista di critica, storia letteraria, filologia e linguistica 7/2 (2010), pp. 20-34.

[16] È assente il Flegetonte, dato che Virgilio lo nomina separatamente dagli altri fiumi: in VI 265 è associato a Caos e in VI 550-551 circonda la città di Dite (quae rapidus flammis ambit torrentibus amnis, / Tartareus Phlegethon).

[17] Cfr. Rand, art. cit., p. 6, n. 1.

[18] Ancora recentemente Catherine Connors e Cindy Clendenon (“Mapping Tartaros: Observation, Inference and Belief in Ancient Greek and Roman Accounts in Karst Terrains”, in Classical Antiquity 35/2 (2016), pp. 147-188, in part. 170) hanno sottolineato l’accuratezza delle descrizioni idrogeologiche del Fedone presupponendo che alla loro base vi sia un’osservazione attenta del carsismo, dato che ad esso si ricollega una vasta serie di fenomeni: la scomparsa e ricomparsa delle acque, le voragini imbutiformi, il principio dei vasi comunicanti, le oscillazioni dei liquidi sotterranei.

[19] Cfr. Camozzi, art. cit., pp. 23-31.                      

[20] Cfr. p. es. il recente Luciano Gargan, Dante, la sua biblioteca e lo studio di Bologna, Roma-Padova: Editrice Antenore MMXIV.